20 mar 2011

GHEDDAFI SI' GHEDDAFI NO, L'EUROPA DEI CACHI BLU

Nella no-fly zone si parla inglese. Aerei, bombe, radar, uomini e basi militari, milioni di euro bruciati in un istante, in quei tomahawk che prendono il nome da un popolo sterminato, i powhatan, nativi americani del Maryland. Si affrettano i politici italiani a condividere l’ennesimo sopruso in nome del petrolio, con Schifani, Berlusconi, Franceschini o D’Alema subito pronti a convergere sulla necessità di mantenere gli interessi economici in Libia con buona pace del popolo libico o neolibico che sia. Non c’è Fukushima che tenga, l’unico impegno nella testa dei nostri governanti è fare il gioco di trafficanti d’uomini, d’armi ed energia. Si è iniziato con l’entusiasmo generale, le proteste di piazza come il simbolo di un risveglio arabo, la caduta dei regimi, l’emancipazione via twitter e facebook di un’intera generazione di giovani tunisini, egiziani, e poi via all’effetto domino con Giordania, Yemen.. e Libia. Nel frattempo dall’ottimismo post-etnologico si è passati all’interventismo post-colonialistico, con i media schierati a fare la loro parte nel raccontare un conflitto che ha bisogno di un buono e un cattivo, che mai come ora (si fa per dire) sono difficili da distinguere.
Che nell’anniversario di quel 17 febbraio di 5 anni fa che aveva visto l’attacco al consolato italiano di Benghazi, migliaia di giovani abbiano affollato le strade della popolosa Cirenaica è sembrato dapprima una specie di coincidenza. Lo stesso Adriano Santini, direttore dell’Aise, l’Agenzia per le Informazioni e la Sicurezza esterna, il 3 febbraio aveva rassicurato: “Nessun contagio delle proteste in Libia”. Tempo due settimane e già i giornalisti visitano l’ex bunker di Gheddafi a Benghazi, le “v” di vittoria e gli immancabili Allahu akbar, Allah è grande. Per il resto, il consiglio di transizione – riconosciuto da molti paesi occidentali come a tutti gli effetti un interlocutore attendibile – inizia a ripetere una sola cosa: “Aiutateci a scavare la fossa di Gheddafi.” Intanto Santini resta al suo posto, e il dubbio che tutta la rivolta fosse stata attentamente pianificata a tavolino in stile Cia, prende sempre più piede.



Obama, Sarkozy, Cameron e con loro i leader che fino a ieri hanno fatto affari con Libia, Tunisia ed Egitto d’un tratto si son dimostrati crociati interventisti, con l’eccezione dell’Egitto il cui Mubarak è stato coperto fino all’ultimo da Obama.
Gheddafi d’altra parte già all’indomani della fuga di Ben Ali aveva duramente attaccato e condannato la rivolta dei giovani tunisini: “La Tunisia ora vive nella paura. Le famiglie hanno paura di essere assassinate nei loro letti e i cittadini uccisi per la strada come se fosse la rivoluzione bolscevica.. o americana”. Parole premonitrici, che venivano accompagnate da un invito: “La Tunisia dovrebbe fare come la Libia, che rappresenta la destinazione finale della ricerca di democrazia da parte del popolo”. Poi il 17 febbraio, la profezia si avvera, con tempismo perfetto, e subito Gheddafi tentenna, è pronto persino a trattare coi ribelli, prospetta il timore di una Libia divisa in due, ma niente, i ribelli di Gheddafi vogliono la sua morte e questo è in pratica l’unico obiettivo politico di sorta nella loro agenda.
Ma chi sono davvero i ribelli? Questo nessuno l’ha capito. In effetti, la parola “democrazia” non è mai venuta fuori dalle bocche dei rivoluzionari di Benghazi, a differenza dei vicini Egitto e Tunisia.
In centinaia in “occidente” hanno affollato i cinguettii telematici dei sedicenti rivoluzionari in Cirenaica; Bbc, Tv France, Rai e tutti i maggiori giornali del mondo hanno inviato i loro bravi corrispondenti a filmare giovani entusiasti con la contraerei nelle mani. Seduti nelle nostre comode poltrone, abbiamo potuto vedere massacri a due passi da casa, tanto da far rivivere l’incubo Balcani. All’indomani della risoluzione Onu, ora aspettiamo che gli aerei decollino dalle nostre basi per andare a bombardare una terra vicina, da cui in migliaia partono ammassati su bagnarole per arrivare alle nostre coste, pagando cifre che superano gli stipendi di 5 mesi di un cassintegrato in Italia.

In una situazione di nevrastenia generale, il presidente Sarkozy gioca a fare Napoleone, Obama continua a ripetere come un mantra che Gheddafi se ne deve andare, e migliaia di supporter della rivoluzione anti-verde (il colore della Jamahirya) diventano star sotto i riflettori dei media occidentali, creando l’ira di Gheddafi e famiglia. E mentre l’Italia si appresta a lasciare Haiti a se stessa, ecco che il Mediterraneo si trasforma in mare di guerra, con soddisfazione dei leader in vena di inni alla storia. Sembra infatti siano soddisfatti i politici di avere un altro fronte su cui combattere, perché la guerra che non ha portato la pace (e la democrazia) in Iraq e Afghanistan, certamente non fallirà in Libia, secondo la loro convinzione. Infatti il nome della missione, Odissea all’alba, sembra garantire che la notte non sarà poi così lunga.

In tutto questo, l’Onu ha – per una volta – giocato il suo ruolo con una certa celerità, prima con le lacrime di coccodrillo di quello che fino al giorno prima era il fedele ambasciatore del regime di Tripoli al palazzo di vetro, Mohammed Shalghame, ora con la risoluzione 1973 che prevede bombardamenti mirati e in sostanza una guerra nella guerra, in cui le potenze del mondo civile dovranno porre fine alla violenta repressione del folle Gheddafi. Perché per il Darfur non si vede una tale celerità? Perché a Gaza invece un intervento di difesa della popolazione civile non c’è stato? Non solo, le stesse potenze hanno dichiarato di riconoscere come interlocutori il consiglio di Gheddafi, l’ex ministro della giustizia di Gheddafi Moustapha Abdeljalil, che era anche comandante dell’intelligence a Benghazi. Lui e una manciata di poltrone senza nome dovrebbero garantire la democraticità della Nuova Libia, e soprattutto gli approvvigionamenti di gas e petrolio.
Dall’altra parte dell’oceano, Obama – il presidente che aveva promesso la chiusura di Guantanamo  – decide che questo oscuro consiglio, autoproclamatosi liberatore della patria, debba essere l’arma per privare Gheddafi del potere, e magari darlo direttamente nelle mani di chi ha armato l’arma stessa: Francia, Stati Uniti, Inghilterra e quindi la Nato e l’Ue. Zitti zitti, i paesi occidentali hanno giocato la carta del rimproverare a Gheddafi quello che gli hanno sempre perdonato: essere un folle sanguinario, come d’altronde aveva dimostrato nell’attentato di Lockerbie e in tante altre occasioni. Eppure era andato bene all’Inghilterra l’accordo per le trivellazioni nella Sirte (dopo la tragedia ambientale sulle coste della Florida) affidate alla benemerita British Petroleum, come d’altronde non era dispiaciuto all’Europa il trattato d’amicizia italo-libica.
Ora, dopo anni di affari alla luce del sole, e di baciamani sia da destra che da sinistra, i democratici leader occidentali vogliono farci credere che loro non vogliono la dittatura, anzi preferiscono che vadano al governo dei ragazzi in vena di euforia e martirio, con l’aiuto di missili made in Usa e diplomazia made in Paris. Possibile che le ex potenze coloniali europee siano diventate così illuminate da volere la libertà di autodeterminazione degli stessi popoli che per secoli hanno tentato di assoggettare?
“Il fatto che sulle città in mano ai rivoltosi sventoli impunita la bandiera della vecchia monarchia senussita, corrotta e infeudata all’imperialismo, non promette nulla di buono” – scrive Spartaco Puttini su Eurasia. “E’ incredibile che i media parlino di bandiera della nuova Libia libera e democratica, quando lo stesso Re Idris non era altro che una marionetta nelle mani di inglesi e americani”. Il suo United Libyan Kingdom era in sostanza una mucca da petrolio e un migliore alleato del ribelle Gheddafi. Il fatto che il simbolo della nuova democrazia in Libia sia quello dell’ex monarchia dovrebbe dirla lunga sulla consapevolezza democratica, politica e partecipativa dei ribelli di Benghazi.
Certamente molti giovani sono in buona fede, pronti a morire come raccontano le loro canzoni hip hop: “Madri, siate orgogliose, i vostri figli saranno martiri” – si ripetono, per dare forza al loro risiko. Il grande scandalo di questa guerra però è la menzogna che l’ha fomentata, come menzogna fu alla base dell’invasione in Iraq. Le voci, o meglio, i titoli dei giornali che all’indomani delle proteste gridavano: Genocidio! Bombardamenti aerei sulla popolazione! Fosse comuni!
Tanti punti esclamativi che hanno convinto la popolazione occidentale della bontà delle intenzioni dei propri paesi, con relative impennate di deficit a scapito di iniziative umanitarie o economiche che aiutino a contenere il prezzo dei cereali ad esempio, una delle principali ragioni della crisi economica in gran parte del nord Africa. Ormai è troppo tardi, lo tsunami ha colpito e il pensiero radioattivo è ormai passato all’unanimità in quel consesso degli uomini, l’Onu, che per una volta si è dimostrata utile a fare gli interessi pure dei suoi più acerrimi detrattori, gli Usa.

Inganno dunque, come furono le immagini dell’eccidio di Natale a Timisoara nel 1989, in cui le televisioni di tutto il mondo mostrarono una strage inventata, per dare la colpa alla Securitate. E come esse le false informazioni sulle armi di massa in Iraq portate da Colin Powell proprio all’Onu. Dove non poté Bush insomma, sono riusciti Carla Bruni e Barack Obama, in quella che sembra a prima vista la vera condanna politica del presidente uscente usa e l’ultimo battito di coda di Sarkò per far dimenticare il business finora in voga con Ben Ali e la stessa Libia, dal lontano 1974, anno in cui fu siglato il primo accordo di scambio con Tripoli. Dopo 40 anni di affari, è la Francia il primo paese a riconoscere il Consiglio di Transizione come il governo legittimo della Libia, un tempismo che quantomeno insospettisce.
Potrebbe essere che Sarkozy, come tanti altri leader, abbia soltanto voglia di suonare il suo olifante prima – o forse dopo – la sua ultima battaglia, quella finale: quella della rielezione, delle consulenze a peso d’oro e di una carriera di commentatore e scrittore milionario, come già Henry Kissinger prima e Tony Blair dopo. Di certo a Sarkozy e Obama sarà meglio trovare già un agente letterario, perché gli elettori scopriranno presto il trucco e li manderanno a casa, fino ai prossimi testimoni di un impegno, quello dei paesi occidentali, che sembra più intenzionato a difendere i contratti Eni, Bp e compagnia che la difesa di qualsivoglia popolo.

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