NEXT WEEK
Skopje, Macedonia for Balkans Beyond Borders workshop
theme: CRISIS
hypothesis: SKOPJE 2014 as example of how to fight the crisis?
answer: CRISIS sometimes increases expenditure.. building constructions seems to be the favorite past time for local politicians anywhere, but are these ones doing any good?
Skopje knows no crisis, or we have just missed something?
26 mar 2011
24 mar 2011
FROMM, FUGA DALLA LIBERTA'
Era ancora il 1941 quando Fromm pubblicò questo libro, negli Stati Uniti, dove si era rifugiato insieme a quel che rimaneva della Scuola di Francoforte. In “Fuga dalla libertà” (Edizioni Comunità 1980), Fromm mette a nudo la comprensione della crisi che aveva portato alla seconda Guerra Mondiale, focalizzandosi su un tema: la libertà come esperienza umana.
Si parte con la comparazione di Hitler e Lutero, entrambi desiderosi di sottomissione e sensibili al richiamo dell’autorità. Sia per Lutero che per Hitler, sottolinea Fromm, la libertà non ha significato e la trascendenza divina è assoluta, rendendo l’uomo un minuscolo punto malvagio e impotente. La convinzione di una corruzione radicale dell’essere umano porta entrambi a ritenere la giustizia completamente estranea al mondo, indebolendo così la fiducia nell’uomo e nei suoi ideali.
da: http://socialismoryourmoneyback.blogspot.com/2009/12/erich-fromm-part-3.html
Ciò che accomuna inoltre Hitler e Lutero è il loro appellarsi a una massa che disprezzano, quella che Fromm chiama “classe media inferiore”, cresciuta come loro in un regime di autoritarismo a rischio di fronte ai grandi cambiamenti della società. Come era successo alla classe media post medievale di essere soppiantata dal nascente capitalismo, i piccoli borghesi di Weimar si ritrovavano spogliati della possibilità di sottomettersi all’autorità della monarchia, caduta con la fine della Grande Guerra, per finire invece in una repubblica dove l’elite era composta di ebrei, socialisti e simpatizzanti bolscevichi o anti-autoritari.
Se nel medioevo però il piccolo bottegaio poteva contare sull’aiuto di tutta la sua categoria, anche se non su grande possibilità di introiti, con la nascita del capitalismo il commerciante si ritrovava più isolato dalla comunità, ma con più chance di arricchimento. Il successo dipendeva ormai solo da lui, come anche il suo fallimento non riguardava più la comunità, mostrando quindi i primi segni di irrilevanza del singolo.
Fromm però non si limita a guardare alla Germania, la cui distruttività aveva assunto i tratti razzisti che Hitler aveva morbosamente mutuato da Darwin. Altro oggetto della ricerca di Fromm è infatti la vita nel mondo del capitale, gli Stati Uniti, dove masochismo e sadismo avevano accondisceso a non mostrarsi l’un altro, rendendo quindi uguali la brama di potere e il desiderio di sottomissione. Il conformismo del singolo in una società di massa capitalistica è per Fromm il tipico esempio di rimozione dell’io originario, in un procedere da automa che a forza di consumismo si ritrova sempre più isolato. Le auto, gli incontri di lavoro, persino radio e cinema portano l’individuo a non riconoscere più un’emozione vera da una indotta dall’educazione, dalla manipolazione della coscienza.
In particolare Fromm analizza dei sogni per mostrare come l’erosione della libertà personale sia opera dello stesso individuo che voglia essere accettato dalla società di massa, esautorando così ogni possibile contributo dell’irrazionale nella produzione creativa di relazioni umane. In sostanza, per Fromm si diventa irrazionali non per un obiettivo, ma per fuggire, come nel caso di una persona che assediata da un incendio nel suo palazzo si butti dalla finestra.
L’esempio dell’ipnosi inoltre dimostra come volere, pensare e sentire possano essere influenzati dall’esterno, così che la persona ormai in preda alle fiamme, senza speranza di uscire viva dalle scale, tenderà a buttarsi di sotto, mentre potrebbe aspettare l’aiuto di qualcuno, se solo fosse convinta che questo aiuto verrà. Per Fromm, il pensiero genuino va distinto dallo pseudo pensiero, che si limita soltanto a riportare le opinioni ricavate da una fonte di autorità. Lo stesso dicasi della volontà e del desiderio, sostituiti con dei simulacri come “razza” o “potere”, che portano l’individuo sadomaso ad amare il potente e a odiare l’inerme. Per questo, sottolinea acutamente Fromm, le politiche di appeasement portate avanti nei confronti del nazismo avevano acuito, anziché diminuire, il disprezzo di Hitler verso i cosiddetti stati liberali.
Negli Usa come in Germania o in Italia, secondo Fromm gli individui non sentono la libertà come realizzazione attiva e spontanea dell’io individuale, bensì come simbiosi con qualcosa di esterno, la razza appunto, magari il lavoro, o la patria. L’io però, dice Fromm, è tanto più forte quanto più è attivo, dimostrando così che una società davvero creativa non ha bisogno di fuggire per essere libera. La libertà positiva è infatti la personalità totale che non rinuncia alla spontaneità, lasciando da parte invece lo pseudo desiderio che spinge a voler essere diversi a qualsiasi costo. Proprio questa condizione porta l’essere umano a essere disposto a qualsiasi ideologia, a qualsiasi capo purché prometta azioni ed emozioni forti, perché da solo non riuscirebbe. Di fronte a un io piccolo, la dittatura è grande – spiega Fromm – perché il fascismo indebolisce la vera individualità, la stessa che può procurare crescita e forza ai singoli, invece di spingerli verso una dicotomia tra sadismo e masochismo, odio e amore, amico e nemico, ragione e natura.
Si parte con la comparazione di Hitler e Lutero, entrambi desiderosi di sottomissione e sensibili al richiamo dell’autorità. Sia per Lutero che per Hitler, sottolinea Fromm, la libertà non ha significato e la trascendenza divina è assoluta, rendendo l’uomo un minuscolo punto malvagio e impotente. La convinzione di una corruzione radicale dell’essere umano porta entrambi a ritenere la giustizia completamente estranea al mondo, indebolendo così la fiducia nell’uomo e nei suoi ideali.
da: http://socialismoryourmoneyback.blogspot.com/2009/12/erich-fromm-part-3.html
Ciò che accomuna inoltre Hitler e Lutero è il loro appellarsi a una massa che disprezzano, quella che Fromm chiama “classe media inferiore”, cresciuta come loro in un regime di autoritarismo a rischio di fronte ai grandi cambiamenti della società. Come era successo alla classe media post medievale di essere soppiantata dal nascente capitalismo, i piccoli borghesi di Weimar si ritrovavano spogliati della possibilità di sottomettersi all’autorità della monarchia, caduta con la fine della Grande Guerra, per finire invece in una repubblica dove l’elite era composta di ebrei, socialisti e simpatizzanti bolscevichi o anti-autoritari.
Se nel medioevo però il piccolo bottegaio poteva contare sull’aiuto di tutta la sua categoria, anche se non su grande possibilità di introiti, con la nascita del capitalismo il commerciante si ritrovava più isolato dalla comunità, ma con più chance di arricchimento. Il successo dipendeva ormai solo da lui, come anche il suo fallimento non riguardava più la comunità, mostrando quindi i primi segni di irrilevanza del singolo.
Fromm però non si limita a guardare alla Germania, la cui distruttività aveva assunto i tratti razzisti che Hitler aveva morbosamente mutuato da Darwin. Altro oggetto della ricerca di Fromm è infatti la vita nel mondo del capitale, gli Stati Uniti, dove masochismo e sadismo avevano accondisceso a non mostrarsi l’un altro, rendendo quindi uguali la brama di potere e il desiderio di sottomissione. Il conformismo del singolo in una società di massa capitalistica è per Fromm il tipico esempio di rimozione dell’io originario, in un procedere da automa che a forza di consumismo si ritrova sempre più isolato. Le auto, gli incontri di lavoro, persino radio e cinema portano l’individuo a non riconoscere più un’emozione vera da una indotta dall’educazione, dalla manipolazione della coscienza.
da: http://sms2palace.blogspot.com/2011/03/mans-main-task-in-life-is-to-give-birth.html
In particolare Fromm analizza dei sogni per mostrare come l’erosione della libertà personale sia opera dello stesso individuo che voglia essere accettato dalla società di massa, esautorando così ogni possibile contributo dell’irrazionale nella produzione creativa di relazioni umane. In sostanza, per Fromm si diventa irrazionali non per un obiettivo, ma per fuggire, come nel caso di una persona che assediata da un incendio nel suo palazzo si butti dalla finestra.
L’esempio dell’ipnosi inoltre dimostra come volere, pensare e sentire possano essere influenzati dall’esterno, così che la persona ormai in preda alle fiamme, senza speranza di uscire viva dalle scale, tenderà a buttarsi di sotto, mentre potrebbe aspettare l’aiuto di qualcuno, se solo fosse convinta che questo aiuto verrà. Per Fromm, il pensiero genuino va distinto dallo pseudo pensiero, che si limita soltanto a riportare le opinioni ricavate da una fonte di autorità. Lo stesso dicasi della volontà e del desiderio, sostituiti con dei simulacri come “razza” o “potere”, che portano l’individuo sadomaso ad amare il potente e a odiare l’inerme. Per questo, sottolinea acutamente Fromm, le politiche di appeasement portate avanti nei confronti del nazismo avevano acuito, anziché diminuire, il disprezzo di Hitler verso i cosiddetti stati liberali.
Negli Usa come in Germania o in Italia, secondo Fromm gli individui non sentono la libertà come realizzazione attiva e spontanea dell’io individuale, bensì come simbiosi con qualcosa di esterno, la razza appunto, magari il lavoro, o la patria. L’io però, dice Fromm, è tanto più forte quanto più è attivo, dimostrando così che una società davvero creativa non ha bisogno di fuggire per essere libera. La libertà positiva è infatti la personalità totale che non rinuncia alla spontaneità, lasciando da parte invece lo pseudo desiderio che spinge a voler essere diversi a qualsiasi costo. Proprio questa condizione porta l’essere umano a essere disposto a qualsiasi ideologia, a qualsiasi capo purché prometta azioni ed emozioni forti, perché da solo non riuscirebbe. Di fronte a un io piccolo, la dittatura è grande – spiega Fromm – perché il fascismo indebolisce la vera individualità, la stessa che può procurare crescita e forza ai singoli, invece di spingerli verso una dicotomia tra sadismo e masochismo, odio e amore, amico e nemico, ragione e natura.
21 mar 2011
NAPOLITANO E LIBIA
Non possiamo aspettarci troppo da Napolitano, per lui l'Onu è tutto. Se si parla di legalità - di legittimità - allora possiamo essere d'accordo: questa è una guerra giusta.
Al tempo stesso, da un punto di vista italiano, la nostra posizione non può che essere meschina.. d'altronde una parola che i libici conoscono bene. Dopo averli colonizzati, aver chiesto scusa a fior di miliardi e promesso un'autostrada, portiam le bombe invece..
facciamo tristezza, nel bene e nel male
Al tempo stesso, da un punto di vista italiano, la nostra posizione non può che essere meschina.. d'altronde una parola che i libici conoscono bene. Dopo averli colonizzati, aver chiesto scusa a fior di miliardi e promesso un'autostrada, portiam le bombe invece..
facciamo tristezza, nel bene e nel male
20 mar 2011
GHEDDAFI SI' GHEDDAFI NO, L'EUROPA DEI CACHI BLU
Nella no-fly zone si parla inglese. Aerei, bombe, radar, uomini e basi militari, milioni di euro bruciati in un istante, in quei tomahawk che prendono il nome da un popolo sterminato, i powhatan, nativi americani del Maryland. Si affrettano i politici italiani a condividere l’ennesimo sopruso in nome del petrolio, con Schifani, Berlusconi, Franceschini o D’Alema subito pronti a convergere sulla necessità di mantenere gli interessi economici in Libia con buona pace del popolo libico o neolibico che sia. Non c’è Fukushima che tenga, l’unico impegno nella testa dei nostri governanti è fare il gioco di trafficanti d’uomini, d’armi ed energia. Si è iniziato con l’entusiasmo generale, le proteste di piazza come il simbolo di un risveglio arabo, la caduta dei regimi, l’emancipazione via twitter e facebook di un’intera generazione di giovani tunisini, egiziani, e poi via all’effetto domino con Giordania, Yemen.. e Libia. Nel frattempo dall’ottimismo post-etnologico si è passati all’interventismo post-colonialistico, con i media schierati a fare la loro parte nel raccontare un conflitto che ha bisogno di un buono e un cattivo, che mai come ora (si fa per dire) sono difficili da distinguere.
Che nell’anniversario di quel 17 febbraio di 5 anni fa che aveva visto l’attacco al consolato italiano di Benghazi, migliaia di giovani abbiano affollato le strade della popolosa Cirenaica è sembrato dapprima una specie di coincidenza. Lo stesso Adriano Santini, direttore dell’Aise, l’Agenzia per le Informazioni e la Sicurezza esterna, il 3 febbraio aveva rassicurato: “Nessun contagio delle proteste in Libia”. Tempo due settimane e già i giornalisti visitano l’ex bunker di Gheddafi a Benghazi, le “v” di vittoria e gli immancabili Allahu akbar, Allah è grande. Per il resto, il consiglio di transizione – riconosciuto da molti paesi occidentali come a tutti gli effetti un interlocutore attendibile – inizia a ripetere una sola cosa: “Aiutateci a scavare la fossa di Gheddafi.” Intanto Santini resta al suo posto, e il dubbio che tutta la rivolta fosse stata attentamente pianificata a tavolino in stile Cia, prende sempre più piede.
Obama, Sarkozy, Cameron e con loro i leader che fino a ieri hanno fatto affari con Libia, Tunisia ed Egitto d’un tratto si son dimostrati crociati interventisti, con l’eccezione dell’Egitto il cui Mubarak è stato coperto fino all’ultimo da Obama.
Gheddafi d’altra parte già all’indomani della fuga di Ben Ali aveva duramente attaccato e condannato la rivolta dei giovani tunisini: “La Tunisia ora vive nella paura. Le famiglie hanno paura di essere assassinate nei loro letti e i cittadini uccisi per la strada come se fosse la rivoluzione bolscevica.. o americana”. Parole premonitrici, che venivano accompagnate da un invito: “La Tunisia dovrebbe fare come la Libia , che rappresenta la destinazione finale della ricerca di democrazia da parte del popolo”. Poi il 17 febbraio, la profezia si avvera, con tempismo perfetto, e subito Gheddafi tentenna, è pronto persino a trattare coi ribelli, prospetta il timore di una Libia divisa in due, ma niente, i ribelli di Gheddafi vogliono la sua morte e questo è in pratica l’unico obiettivo politico di sorta nella loro agenda.
Ma chi sono davvero i ribelli? Questo nessuno l’ha capito. In effetti, la parola “democrazia” non è mai venuta fuori dalle bocche dei rivoluzionari di Benghazi, a differenza dei vicini Egitto e Tunisia.
In centinaia in “occidente” hanno affollato i cinguettii telematici dei sedicenti rivoluzionari in Cirenaica; Bbc, Tv France, Rai e tutti i maggiori giornali del mondo hanno inviato i loro bravi corrispondenti a filmare giovani entusiasti con la contraerei nelle mani. Seduti nelle nostre comode poltrone, abbiamo potuto vedere massacri a due passi da casa, tanto da far rivivere l’incubo Balcani. All’indomani della risoluzione Onu, ora aspettiamo che gli aerei decollino dalle nostre basi per andare a bombardare una terra vicina, da cui in migliaia partono ammassati su bagnarole per arrivare alle nostre coste, pagando cifre che superano gli stipendi di 5 mesi di un cassintegrato in Italia.
In una situazione di nevrastenia generale, il presidente Sarkozy gioca a fare Napoleone, Obama continua a ripetere come un mantra che Gheddafi se ne deve andare, e migliaia di supporter della rivoluzione anti-verde (il colore della Jamahirya) diventano star sotto i riflettori dei media occidentali, creando l’ira di Gheddafi e famiglia. E mentre l’Italia si appresta a lasciare Haiti a se stessa, ecco che il Mediterraneo si trasforma in mare di guerra, con soddisfazione dei leader in vena di inni alla storia. Sembra infatti siano soddisfatti i politici di avere un altro fronte su cui combattere, perché la guerra che non ha portato la pace (e la democrazia) in Iraq e Afghanistan, certamente non fallirà in Libia, secondo la loro convinzione. Infatti il nome della missione, Odissea all’alba, sembra garantire che la notte non sarà poi così lunga.
In tutto questo, l’Onu ha – per una volta – giocato il suo ruolo con una certa celerità, prima con le lacrime di coccodrillo di quello che fino al giorno prima era il fedele ambasciatore del regime di Tripoli al palazzo di vetro, Mohammed Shalghame, ora con la risoluzione 1973 che prevede bombardamenti mirati e in sostanza una guerra nella guerra, in cui le potenze del mondo civile dovranno porre fine alla violenta repressione del folle Gheddafi. Perché per il Darfur non si vede una tale celerità? Perché a Gaza invece un intervento di difesa della popolazione civile non c’è stato? Non solo, le stesse potenze hanno dichiarato di riconoscere come interlocutori il consiglio di Gheddafi, l’ex ministro della giustizia di Gheddafi Moustapha Abdeljalil, che era anche comandante dell’intelligence a Benghazi. Lui e una manciata di poltrone senza nome dovrebbero garantire la democraticità della Nuova Libia, e soprattutto gli approvvigionamenti di gas e petrolio.
Dall’altra parte dell’oceano, Obama – il presidente che aveva promesso la chiusura di Guantanamo – decide che questo oscuro consiglio, autoproclamatosi liberatore della patria, debba essere l’arma per privare Gheddafi del potere, e magari darlo direttamente nelle mani di chi ha armato l’arma stessa: Francia, Stati Uniti, Inghilterra e quindi la Nato e l’Ue. Zitti zitti, i paesi occidentali hanno giocato la carta del rimproverare a Gheddafi quello che gli hanno sempre perdonato: essere un folle sanguinario, come d’altronde aveva dimostrato nell’attentato di Lockerbie e in tante altre occasioni. Eppure era andato bene all’Inghilterra l’accordo per le trivellazioni nella Sirte (dopo la tragedia ambientale sulle coste della Florida) affidate alla benemerita British Petroleum, come d’altronde non era dispiaciuto all’Europa il trattato d’amicizia italo-libica.
Ora, dopo anni di affari alla luce del sole, e di baciamani sia da destra che da sinistra, i democratici leader occidentali vogliono farci credere che loro non vogliono la dittatura, anzi preferiscono che vadano al governo dei ragazzi in vena di euforia e martirio, con l’aiuto di missili made in Usa e diplomazia made in Paris. Possibile che le ex potenze coloniali europee siano diventate così illuminate da volere la libertà di autodeterminazione degli stessi popoli che per secoli hanno tentato di assoggettare?
“Il fatto che sulle città in mano ai rivoltosi sventoli impunita la bandiera della vecchia monarchia senussita, corrotta e infeudata all’imperialismo, non promette nulla di buono” – scrive Spartaco Puttini su Eurasia. “E’ incredibile che i media parlino di bandiera della nuova Libia libera e democratica, quando lo stesso Re Idris non era altro che una marionetta nelle mani di inglesi e americani”. Il suo United Libyan Kingdom era in sostanza una mucca da petrolio e un migliore alleato del ribelle Gheddafi. Il fatto che il simbolo della nuova democrazia in Libia sia quello dell’ex monarchia dovrebbe dirla lunga sulla consapevolezza democratica, politica e partecipativa dei ribelli di Benghazi.
Certamente molti giovani sono in buona fede, pronti a morire come raccontano le loro canzoni hip hop: “Madri, siate orgogliose, i vostri figli saranno martiri” – si ripetono, per dare forza al loro risiko. Il grande scandalo di questa guerra però è la menzogna che l’ha fomentata, come menzogna fu alla base dell’invasione in Iraq. Le voci, o meglio, i titoli dei giornali che all’indomani delle proteste gridavano: Genocidio! Bombardamenti aerei sulla popolazione! Fosse comuni!
Tanti punti esclamativi che hanno convinto la popolazione occidentale della bontà delle intenzioni dei propri paesi, con relative impennate di deficit a scapito di iniziative umanitarie o economiche che aiutino a contenere il prezzo dei cereali ad esempio, una delle principali ragioni della crisi economica in gran parte del nord Africa. Ormai è troppo tardi, lo tsunami ha colpito e il pensiero radioattivo è ormai passato all’unanimità in quel consesso degli uomini, l’Onu, che per una volta si è dimostrata utile a fare gli interessi pure dei suoi più acerrimi detrattori, gli Usa.
Inganno dunque, come furono le immagini dell’eccidio di Natale a Timisoara nel 1989, in cui le televisioni di tutto il mondo mostrarono una strage inventata, per dare la colpa alla Securitate. E come esse le false informazioni sulle armi di massa in Iraq portate da Colin Powell proprio all’Onu. Dove non poté Bush insomma, sono riusciti Carla Bruni e Barack Obama, in quella che sembra a prima vista la vera condanna politica del presidente uscente usa e l’ultimo battito di coda di Sarkò per far dimenticare il business finora in voga con Ben Ali e la stessa Libia, dal lontano 1974, anno in cui fu siglato il primo accordo di scambio con Tripoli. Dopo 40 anni di affari, è la Francia il primo paese a riconoscere il Consiglio di Transizione come il governo legittimo della Libia, un tempismo che quantomeno insospettisce.
Potrebbe essere che Sarkozy, come tanti altri leader, abbia soltanto voglia di suonare il suo olifante prima – o forse dopo – la sua ultima battaglia, quella finale: quella della rielezione, delle consulenze a peso d’oro e di una carriera di commentatore e scrittore milionario, come già Henry Kissinger prima e Tony Blair dopo. Di certo a Sarkozy e Obama sarà meglio trovare già un agente letterario, perché gli elettori scopriranno presto il trucco e li manderanno a casa, fino ai prossimi testimoni di un impegno, quello dei paesi occidentali, che sembra più intenzionato a difendere i contratti Eni, Bp e compagnia che la difesa di qualsivoglia popolo.
16 mar 2011
Schirru, l'uomo che voleva ammazzare Mussolini
mio pezzo su Mike Schirru, l'anarchico che voleva uccidere Mussolini e per questo fu condannato a morte nel 1931
7 mar 2011
Fermenti libici vivi
mio pezzo sulla Libia Fermenti libici vivi
Francesco Conte su Altera
un articolo di riflessione, inflessione, deflessione, per cercare di capire cosa succederà tra Tripoli e Benghazi
2 mar 2011
LIBYA, ANNO ZERO
... E pensare che neanche 3 anni fa, Gheddafi aveva promesso innovazioni amministrative e una più ampia redistribuzione del reddito proveniente dal petrolio. Nello stesso anno a Tripoli è arrivata Condoleeza Rice, il primo segretario di Stato Usa a fare visita in Libia dal 1953. Pochi giorni prima invece era arrivato l’accordo con il premier italiano Berlusconi sui 5 miliardi di “indennizzo”, tra cui 2.3 impegnati per i 1.700 chilometri che dividono la Tripolitania dalla Cirenaica, oltre il golfo della Sirte. Negli stessi mesi veniva portato avanti l’acquisto dei diritti da parte della British Petroleum su un giacimento di olio e gas al largo di Benghazi, dentro il golfo della Sirte appunto.
Piccolo il mondo, specialmente quando i 5 milioni di libici si affollano nelle poche città che costellano il regno del Re dei Re africani, come fu dichiarato Muammar Gheddafi nel 2008 da oltre duecento leader del continente nero. Nero come l’olio. E come olio son scorsi via 42 anni di regime del Colonnello, il Duce della Jamahiriya socialista di Libya.
Ero andato in Libia all’indomani degli scontri al consolato di Benghazi il 17 febbraio, tra l’altro tappa prevista del viaggio e saltata all’ultimo momento. Tripoli però l’ho vista bene, e con essa anche Nalut, Sebha e i gioielli Ghadames e Sabratha, città di Apollo, ricostruita dagli italiani e ora importante sito archeologico. Più a est invece si trova Leptis Magna, dedicata al culto di Dioniso, accanto alla cittadina di Zliten, già colonia di molti italiani emiliani e veneti. “Qui facevano tanto vino fino a qualche anno fa” – mi raccontava Mohammed, ragazzo conosciuto per strada fuori dal lussuoso hotel – rigorosamente pubblico – dedicato ai turisti. All’ombra della grande città dionisiaca, già luogo di nascita di Settimio Severo, la piccola Zliten cerca di fare soldi col turismo, ma i flussi sono ancora talmente bassi da non permettere un’organizzazione di qualsiasi tipo. In effetti, forse meglio così. Tanto che Mohammed, per la sorpresa di incontrare un italiano per strada per una volta da solo, senza guide né autista, mi invita a casa da lui. Suo padre ha lavorato come operaio cantoniere, anche con ditte italiane, e mi ripete con orgoglio le parole che più ricorda: “Meschino, Alfa Romeo, Brigate Rosse”.
Leggo dal suo libro, pubblicato da Manifestolibri nel 2006, ma sommessamente stampato per la prima volta nel 1993 a Sirte, sua città natale: “Dal punto di vista umano non c’è niente di peggio della tirannia di una moltitudine!! È come un torrente impetuoso che non ha pietà di chi gli si trova dinnanzi!!” – e continua così, il racconto, intitolato “Fuga all’inferno” – “Non ascolta le sue grida, né gli tende la mano, anche quando questi chiede aiuto e implora… Ma lo travolge senza alcun riguardo.”
Una premonizione? “La tirannia del singolo è la più debole forma di tirannia, perché si tratta comunque di un singolo” – aggiunge lo scrittore Gheddafi in queste sue note, pubblicate in francese a Losanna nel 1996. “Quanto amo la libertà collettiva, la sua esplosione incontrollata dopo aver spezzato le proprie catene, mentre canta e salmodia dopo essersi lamentata ed aver a lungo sospirato: eppure io la temo e sono diffidente nei suoi riguardi!!”
Pochi sanno che in Libia sono gli uomini a ballare, mentre le donne suonano, da usanza berbera. E così era successo anche a me sulle dune di Ghadames, al confine con la Tunisia, luogo di riprese di Timbuctù, nonché patrimonio dell’Unesco. Nel mezzo delle danze, chiedo a Hanibal cosa ne pensa di Gheddafi. Lui è l’unico a parlare francese, gli altri capiscono solo l’arabo. Nonostante la mia guida, nonché il poliziotto impegnato sempre ad accompagnarci, mi avessero sconsigliato di fare domande politiche a chicchessia, ho pensato che Hanibal, essendo algerino, non avrebbe avuto problemi. Dopo uno sguardo torvo di quelli che nel deserto proprio non puoi scansare, Hanibal dichiara con eloquenza: “Noi algerini e i libici siamo fratelli. Non come gli egiziani, i tunisini, i marocchini. Noi siamo tribù, più di un popolo. Per noi l’ordine è fondamentale, e Gheddafi ha reso la Libya rispettabile, per questo vengono qui a lavorare da tutto il mondo, pure romeni, ucraini. E anche gli italiani, mi sembra, fanno ottimi affari con i libici.”
Gheddafi sembra sempre di più un Lawrence d’Arabia da secondo tempo, dopo aver perso la chance internazionale del 2008, l’apertura al turismo, con tanto di investimenti milionari con il magnate e filantropo Hassan Tatanaki e la progettazione architettonica di Norman Foster, già protagonista della ristrutturazione del Reichstag a Berlino. L’accordo con le tribù che popolano da sempre il deserto è venuto meno proprio come nel grande film di David Lean, che nel ’62 raccontava il delirio di onnipotenza di un inglese che voleva unire gli arabi, e finiva per fare il gioco della madrepatria inglese. “Di dove sei, italiano? Io conosco Inter, Milan, Juventus” – mi approccia concitato Ahmed, in compagnia dei suoi 3 cugini. Vengono da Agadez, in Niger, dove i Tuareg hanno, se possibile, anche più problemi che in Libia.
“Gheddafi è pazzo” – mi dice sottovoce – “Lui fa uccidere la gente nel deserto. A Tripoli si sta bene sì, ma per chi viene dal Mali, Ghana, Niger, se non c’è lavoro loro ti schifano.” “Loro chi?” – chiedo, facendolo ravvedere del fatto che chiunque potrebbe essere una spia. Il nostro poliziotto è poco distante, ma non sembra capire il francese. Tra l’altro, non mi sembra neanche una cattiva persona. La stessa guida non ha problemi ad ammettere che di Gheddafi semplicemente non si deve parlare. Suleiman ci spiega “che è facile creare delle incomprensioni”, qui la politica si fa solo nella tenda giusta, con chi deve governare, e gli altri si occupano dei propri affari. Che, nonostante la popolazione sia abbastanza esigua, non mancano.
“Immagina che qualcuno ti abbia legato mani e piedi per 42 anni, coprendoti gli occhi e la bocca” – dice il colonnello dell’aeronautica Adel ben Omran, 49 anni, al giornalista di Newsweek Babak Dehghanpisheh, “poi immagina che tu venga slegato, dopo aver vissuto tutta la vita così, è come essere in paradiso.” È il momento dell’ottimismo insomma, un nuovo ’68 che ha portato i giovani arabi a rischiare la propria vita piuttosto che abbandonarla al volere dei leader del secolo passato. È il momento in cui ogni cosa potrebbe succedere e in cui solo la paura può aiutare il nemico. E di paura adesso, i giovani di Benghazi possono fare a meno. “Abbiamo difeso le radio, diffuso le foto e i video degli scontri, tramite internet possiamo comunicare con tutto il mondo. Non siamo soli a volere che questo esperimento vada a buon fine” – è sicuro Hafiz, dello Libyan Youth Movement – “Questa è la nostra rivoluzione, i nostri figli sapranno cosa vuol dire libertà, inshallah.”
Molte speranze insomma nel governo dell’ex Ministro di Giustizia Mustafa Abduljalil, attivo in tutti i territori liberi da Gheddafi nell'est, nel sud e nell'ovest della Libia. Entro 3 mesi le elezioni, e poi si saprà se la Libia è davvero in grado di vincere la sua scommessa con la Storia.
Iscriviti a:
Post (Atom)